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Viaggio alla ricerca del significato del judo.

Viaggio alla ricerca del significato del judo.

 

 

viaggio

 

 

 

 

N.b.: Questo articoletto è pensato per persone che praticano judo. Tutti lo possono ovviamente leggere, ma do per scontato che il lettore conosca il significato di alcuni termini specifici e abbia una conoscenza del judo almeno generale, anche se tutte le informazioni possono essere facilmente raccolte in rete. Mi perdoni il lettore non praticante!

Quando ci approcciamo a una qualsiasi delle attività che facciamo giornalmente, lo facciamo con un preciso scopo. Andiamo al lavoro perché è necessario al nostro sostentamento, mangiamo per placare l’appetito, facciamo una partita a briscola perché ci piace divertirci con gli amici. Lo scopo, in questo caso, è di carattere intimo e personale: è l’utilizzo che noi facciamo di un dato oggetto o di una data attività. Non sempre l’utilizzo di quell’oggetto è coerente con il fine per cui è stato creato. Ad esempio, possiamo utilizzare un’auto per trainare un rimorchio, un trapano per mescolare la pittura, o ancora possiamo servirci di una partita a briscola vinta come pretesto per umiliare un nostro compagno. Ciò non significa che il diverso utilizzo di una data cosa sia sbagliato, o che non vada bene per niente, ma significa che usare le cose per uno scopo diverso dal loro non ci permette di capirne l’intima natura; significa, inoltre, che non potremo trarre da esse il massimo beneficio. Un’auto si apprezza principalmente per la comodità che fornisce ai passeggeri in viaggio, un trapano per fare fori e una partita a briscola per il piacere di stare insieme.

In questo senso, insegnando ad allievi di ogni età già da qualche anno, e praticando con vari compagni da oltre vent’anni, ho potuto raccogliere una serie di molteplici motivazioni che portavano le persone a fare judo: dal ragazzino che voleva imparare a picchiare, alla persona che praticava per passare un paio d’ore in compagnia (e magari allenare più la lingua del resto del corpo), a chi veniva perché c’era anche la morosa, eccetera. Tutte quegli stimoli sono validi a livello personale, ma mi sono chiesto: quanto sono validi per comprendere l’intima natura del judo e trarne il massimo profitto?Dice un versetto biblico che “l’albero si vede dal frutto”, così il frutto ottenuto dalla maggior parte delle persone che sono state mie compagne di pratica in questi anni, si è concretizzato nel loro allontanamento dalla palestra. A ben vedere, di coloro che hanno iniziato con me sono l’unico sopravvissuto dopo tanti anni. Perciò, cosa fa la differenza? Perché loro hanno smesso e io no?

Se loro hanno smesso probabilmente il loro albero, o la loro motivazione, non erano buoni, nel senso che non hanno visto nel Judo un valore per la loro vita, non ne hanno scoperto gli aspetti più nascosti, i più difficili ma anche i più affascinanti.

Questo è un aspetto per me particolarmente interessante come insegnante, perché se è vero che serve un po’ d’impegno nel cercare di comprendere le cose, è anche vero che è molto difficile leggere un libro se non ne conosciamo la lingua. E’ compito del maestro di conoscere lui stesso il linguaggio, che poi trasmetterà agli allievi. Sono le chiavi per comprendere quel che insegna.

Poste queste premesse, avviciniamoci al nocciolo: il Judo è come un bellissimo libro di cui si è persa gran parte della capacità di comprenderne il contenuto. Per continuare nell’analogia, oggi riusciamo a capire le figure, come fanno i bambini. Ovvero, chiunque può imparare e poi insegnare il “go-kyo” (l’insieme di tutte le principali tecniche del Judo), molti possono arrivare a una ottima preparazione tecnica, ma nonostante ciò non aver compreso il perché degli esercizi e delle stesse tecniche.

La domanda che si dovrebbe porre il judoka di lunga data (e l’essere umano in generale) non è come, ma perché. In questo modo siamo costretti ad andare oltre il significato apparente delle cose.

 

 

 

Perché le gare?

 

judo gara

 

Posso allenarmi duramente fino a diventare un campione olimpico, ma è forse questo lo scopo ultimo del judo? No, non lo è. Lo dico con la certezza di chi è ormai fuori dal giro dell’agonismo da molto tempo, ma continua a crescere grazie alla pratica del Judo. Un atleta per quanto tempo può mantenere le sue abilità e la sua forza? E poi? Il Judo diventa inutile?

L’obiettivo agonistico, se pur condivisibile ed auspicabile in un atleta, non può esser l’unico che il judoka si pone, sarebbe come dire che vado a lavorare per il solo piacere di guidare la macchina al mattino: una volta arrivato che ne faccio delle ore fino al mio rientro? Quello è il vero scopo della giornata!

Allo stesso modo, la pratica agonistica va vista nella sua reale dimensione e lo scopo ultimo di una scuola di Judo, così come delle varie federazioni che raccolgono i club, non può essere unicamente quello agonistico. Questo è secondo me un aspetto che oggi va fortemente ridimensionato.

C’è anche un altro aspetto importante da considerare: i regolamenti. Certo, sono necessari ma vanno redatti nel modo giusto. Un regolamento deve promuovere la completezza del Judo ed essere traccia di codice morale, non andare dietro ad esigenze di marketing della disciplina o di visibilità televisiva. Se per fare questo tolgo per regolamento pezzi di Judo (come nel caso del divieto di presa ai pantaloni), che di fatto cancellano tecniche complete, si arriva al risultato che le stesse tecniche non verranno più insegnate nelle palestre, perché tanto i ragazzi non le potrebbero utilizzare in gara! Beh allora è evidente che ci troviamo di fronte a un pessimo regolamento, è un regolamento che dimostra come i suoi redattori siano lontani dalla idea originale del Judo. Un regolamento che con i suoi tagli decurta e sminuisce la varietà tecnica della sua disciplina è un esercizio suicida nel lungo termine, proprio in nome di quel marketing che vorrebbe promuovere.

Il Maestro Kano stesso ci ha lasciato nei suoi scritti la traccia di come intendesse le competizioni, ovvero (semplifico ma non me ne vogliate, la versione integrale si trova nei libri del Maestro Kano) un momento di confronto e di allenamento al combattimento reale (la pressione psicologica è diversa da quella dell’allenamento di palestra e l’errore non è permesso), nonché un esame per valutare il miglioramento ottenuto ed allenare il reciproco rispetto. Alla luce di questo ragionamento, possiamo sostenere che è moralmente inaccettabile vedere atleti e tecnici lasciarsi andare in manifestazioni di estrema gioia in caso di vittoria o proteste e gesti antisportivi in caso di sconfitta. Costoro hanno perso di vista lo scopo e stanno percorrendo una via che non è il Judo. Ecco che il Judo esce dal dojo e con una corretta visione dell’attività agonistica diventa ricchezza personale, fatta di tempra di fronte alle difficoltà ed agli imprevisti, gestione delle emozioni e autocontrollo.

 

 

 

 

 

Perchè il “go-kyo”?

 

gokyo

 

Ridimensionato il discorso gare, la domanda sul “go-kyo” non è di risposta scontata. Anche perché come insegnante io cerco di insegnarlo a tutti, agonisti e non. Quindi il suo valore non è da vedere nella preparazione all’atto competitivo, ma come addestramento personale del corpo e soprattutto della mente, tramite la preparazione fisica e l’impegno nello studiare i principi delle tecniche.

Ci sono più modi per insegnare quelle quaranta tecniche: c’è chi le propone una per una, a compartimenti stagni in modo che chi le affronta sia portato a cercare di imparare quaranta tecniche con le loro sequenze di movimento (ma veramente si possono memorizzare tanti dettagli?); oppure posso presentarne i principi e le classificazioni, seguiti da due o tre applicazioni del principio (forme tecniche): in questo modo avrò le chiavi di lettura delle tecniche come applicazione del principio, il che mi permetterà un’agevole pratica.

Non è raro vedere allievi inesperti, che dopo aver appreso un principio trovano spontaneamente forme tecniche molto simili a quelle catalogate, ma mai spiegate. Ecco dunque la vera ricchezza del “go-kyo”. Da notare che questo tipo di approccio porta il Judo fuori dalla materassina nella coltivazione di una forma mentis, una struttura di pensiero in grado di fornire al praticante gli strumenti per risolvere in modo più efficace i tanti problemi della vita quotidiana. Il Judo è filosofia di vita.

 

 

 

 

Perché il kata?

 

judo kata

 

Questa è una domanda che mi sono posto molte volte, soprattutto nella preparazione agli esami di graduazione (passaggio di “dan”). So che, fortunatamente, non è così dovunque, ma nella mia piccola realtà il kata è sempre stato visto come un male necessario, per il disgraziato che decideva di preparare un esame di “dan”, invece della raccolta di punti in gara. Quindi, è sempre stata quasi una tortura il dover imparare quei balletti tecnici alla perfezione, con una domanda che ronzava nella testa: a cosa serve? Hanno un significato? Perché il Maestro Kano li ha inseriti nel suo Judo?

Non credo che la risposta giusta fosse: “studi i kata per superare un esame”. Un esame ha lo scopo di valutare l’apprendimento delle materie fondamentali, i kata hanno grande importanza altrimenti non persisterebbero a tutt’oggi nei programmi di esame.

Forse i kata sono utili (o necessari) a preparare una carriera agonistica di chi non si vuole dedicare allo “shiai”? Sono fortemente propenso a credere di no. Le gare di kata sono un evento molto recente nella storia del Judo, senza nulla voler togliere a chi decide di percorrere questa strada (ed in verità ho visto i nostri atleti regionali eseguire bellissimi kata), lo scopo non è certo di far vedere ad una giuria quanto si è bravi.

Credo sia un esempio di utilizzo di una cosa nel modo sbagliato. Lo stesso Maestro Kano affermava che il Judo è composto da “randori” e “kata”, vedeva nelle due componenti un’importanza quasi paritaria: è quindi sbagliato voler scindere le due parti. Io penso che nei kata, il Maestro Kano abbia inserito tutto quello che non è nel go-kyo, ovvero, se con lo studio dei principi tecnici impariamo una tecnica è altrettanto vero che non necessariamente impariamo come eseguirla in “randori”. Per questo esistono i “randori no kata”, così come esistono i kata superiori per dare traccia e dimostrare quei principi che trascendono la materassina ed entrano nel quotidiano delle persone.

Sono veri e propri libri scritti però in un linguaggio che per noi è di difficile comprensione. Il linguaggio del corpo utilizzato in quei kata richiede un’interpretazione particolare, che, a sua volta, per esser compresa del tutto necessita della conoscenza profonda della realtà culturale che il Maestro Kano viveva. Io non conosco il significato di tutti i kata, è il percorso che sto faticosamente cercando di fare, ogni volta che ho l’opportunità di studiare con un buon “uke”. Inoltre, mi manca un maestro in grado di spiegare bene queste cose. Ho conosciuto e apprezzato molti tecnici, ma mai nessuno mi ha aiutato in questo senso, forse perché il tempo trascorso insieme era troppo poco e troppo vincolato all’argomento di un corso. Credo che sia vitale fare corsi specifici su questi argomenti, corsi che nella nostra Federazione non sono mai stati proposti e che invece in altre realtà (molto meno “agonistiche” della nostra) esistono.

Molte volte mi è stato brillantemente spiegato il come eseguire un kata (e per questo le occasioni ci sono e sono valide) ma mai perché. Purtroppo il perché è la domanda che subito sorge dopo il come, fa parte della natura dell’uomo. Si può ben affermare che i “kata” sono i “densho” (libri fondamentali) del judo, nei quali il Maestro Kano ha riposto i suoi più importanti segreti. Di quei segreti solo due concretamente riguardano la pratica in palestra, gli altri hanno un messaggio che parla all’anima dell’uomo.

 

Ecco come il Judo, inteso nella sua completezza, esce dalla dimensione dell’attività sportiva e diventa scuola di vita e di pensiero, un prezioso strumento per condurre le nostre vite.

 

Il mio intimo augurio è che si possa in futuro relegare al loro vero significato le pratiche legate alla visione solo sportiva del judo, che si possa uscire da questa dannosa mentalità che ad oggi pervade il judo nazionale, nonché rimettere l’uomo e non il gesto al centro del Judo. Tanti praticanti che magari ignorano queste possibilità ne avranno la vita migliorata e questa è, ne sono certo, la più bella delle medaglie.

 

 

Enrico